DALLA VERGOGNA AL CORPO GIOIOSO
Di ELISA BARBIERI
Nana _ Niki de Saint Phalle
#01 La vergogna come conseguenza dell’umiliazione subita
La vergogna è un imbarazzo onnicomprensivo su chi siamo, cosa vogliamo e cosa abbiamo fatto.
La vergogna ci dice che, nel passato, qualcuno ci ha umiliati. La vergogna è uno dei peggiori sintomi del trauma. Cosa ci vuole per umiliare un bambino? Dolorosamente poco. Tutto ciò che serve è trattare il piccolo con durezza, sminuire i suoi sforzi, rimproverarlo per gli scivoloni, negare gli abbracci.
Non ammettiamo la vergogna, ci vergogniamo della vergogna. Neghiamo la vergogna, non crediamo che qualcun altro ci abbia fatto del male, perché sarebbe come "lamentarsi"; mentre siamo convinte della nostra primordiale orribilità.
Ogni volta che qualcosa va storto, la vergogna ci fa sentire immediatamente responsabili. La vergogna ci parla di un critico interiore che non molla mai, di una voce interna che ci tortura, che ci ricorda che siamo sbagliate, che ciò che facciamo è sbagliato e che non meritiamo nessuna compassione.
In particolare, la vergogna del corpo è molto diffusa e ci ferisce profondamente. È un aspetto della vergogna che ci coinvolge molto, in quanto il corpo della donna è spesso oggetto di giudizio.
Parlare di vergogna del corpo non è parlare di un aspetto secondario, ma mettere a fuoco e fare uscire da una zona di tabù un’emozione che, per il suo perdurare e accompagnarci lungo tutta la vita, finisce per essere un sentimento.
Il corpo ha una sacralità, il corpo siamo noi, dunque la vergogna del corpo è la conseguenza di un’umiliazione crudele, che le donne subiscono da tempi immemorabili.
Per riuscire a fornire una prospettiva nuova e vivificante su questo tema, prendo spunto dalla scienza, dall’arte, dall’antropologia e, naturalmente, dal mito della Donna-Farfalla e dall’intero capitolo di Donne che corrono coi lupi di Clarissa Pinkola Estès (ed. Edizioni Frassinelli 2006, p.199-212) dal titolo “Il corpo gioioso: la carne selvaggia”.
#02 La biodiversità dei corpi umani
Noi siamo animali umani. Siamo parte della natura, così come ne sono parte gli animali non umani, la cosiddetta ‘fauna’ e il mondo vegetale, la flora. Uno dei concetti fondamentali delle scienze naturali è la BIODIVERSITA’.
Il termine biodiversità, introdotto nel 1988 dall'entomologo americano Edward O. Wilson, definisce la varietà di forme di vita presenti sul Pianeta, comprese tutte le specie di piante, animali, funghi e microorganismi, nonché le interazioni ecologiche che esistono tra di loro.
Si misura con il numero di specie presenti in un ecosistema, ma anche valutando la varietà genetica all'interno di una popolazione di ogni specie.
La biodiversità può quindi essere definita come la ricchezza di vita sulla Terra.
Esistono tre tipi di biodiversità:
La diversità di ecosistema
La diversità di specie
La diversità genetica, cioè la varietà dei geni all’interno di una determinata specie. Ogni individuo all'interno di una specie ha una combinazione unica di geni, e una maggiore diversità genetica può contribuire alla sopravvivenza della specie.
Queste diverse tipologie di biodiversità sono strettamente interconnesse e si influenzano reciprocamente. La perdita o il deterioramento di una tipologia di biodiversità può avere effetti negativi su altre tipologie e sulla salute complessiva degli ecosistemi.
La biodiversità è fondamentale per il funzionamento degli ecosistemi e per il benessere dell'intero Pianeta. Ogni forma di vita ha un ruolo unico e contribuisce alla stabilità e alla resilienza degli ecosistemi. Per esempio, le piante svolgono la fotosintesi e forniscono ossigeno, le api e altri insetti sono importanti per la fecondazione delle piante, i predatori mantengono il controllo delle popolazioni di erbivori, e così via.
Se siamo animali, se siamo parte della natura, allora è normale che i nostri corpi siano tutti diversi, perché ciascuno ha una combinazione unica di geni. Questo non è solo normale, ma è di vitale importanza, perché la diversità contribuisce alla stabilità e alla resilienza dell’ecosistema nel quale viviamo.
#03 La vergogna del corpo come giudizio introiettato
Troppo spesso il corpo non è gioioso ma, al contrario, fonte di vergogna. La vergogna deriva all’aver introiettato un giudizio esterno su ciò che è considerato buono e bello. Nel caso del corpo è uno standard unico, un ideale esclusivo, che non tiene conto della biodiversità dei corpi.
Clarissa Pinkola Estès osserva la biodiversità animale, in particolare quella dei lupi, con attenzione e trasporto: “Mi affascina il modo in cui i lupi si uniscono con i corpi quando corrono e giocano, ognuno a modo suo: i vecchi lupi e i giovani, quelli secchi e quelli grassi, dalle zampe lunghe o dalla coda mozza, con le orecchie cascanti o le articolazioni rotte ricomposte alla meglio. Ognuno ha la sua configurazione e la sua forza corporale, una sua bellezza. Vivono e giocano conformemente a chi e come sono. Non cercano di essere quel che non sono.”
L’autrice ci dice che occorre rivalutare il corpo come sensore, come rete informativa, come messaggero, come veicolo, come ‘adoratore della vita’, un essere multilingue, un cervello diffuso dotato di memoria.
Nella società patriarcale il corpo della donna è stato ridotto a oggetto, da possedere e controllare sotto tantissimi aspetti: relativi alla procreazione, al non rispetto dei tempi del ciclo e via dicendo.
Come evidenziato da Lorella Zanardo nel documentario Il Corpo delle Donne, realizzato nel 2009 analizzando le immagini di 30 anni di televisione italiana pubblica e privata, il corpo della donna è stata sfruttato a fini commerciali, ideologici e politici. La stessa rappresentazione umiliante e strumentalizzata si ritrova nelle immagini di moda, di pubblicità, di cinema, di teatro, dei social media. Emerge un’idea di accettabilità di corpo che quel tipo di immagini diffondono: un’idea ristretta, secondo la quale esiste un corpo ‘giusto’, ‘bello’, e ‘desiderabile’, in cui è assente il rispetto per la biodiversità, ed è invece presente la forzatura sotterranea ad uniformarsi a un unico modello socialmente accettabile.
Esiste dunque un giudizio condiviso su come un corpo di donna debba apparire. L’immaginario collettivo è stato profondamente influenzato da secoli di stereotipo e la maggior parte delle donne ha introiettato quel giudizio sociale fino a voler controllare il proprio corpo, a volerlo ‘scolpire’, a volerlo uniformare a ‘ciò che piace’, fino a vergognarsi di tutto ciò che non corrisponde all’unico ideale.
È dunque necessario ripristinare un immaginario diverso, nel quale la biodiversità del corpo è celebrata come ricchezza.
#04 Ripristinare l’immaginario
È solo lavorando con la potenza profonda delle immagini che abitano l’inconscio, che possiamo rafforzare l’autostima, cessare di vergognarci e, al contrario, trovare gioia e orgoglio nella carne e anche un senso di appartenenza all’ecosistema e alla nostra progenie, perché le caratteristiche del corpo derivano dal patrimonio genetico, dai nostri avi.
Quale immaginario?
Proviamo a cercare in un immaginario non patriarcale.
LA VENERE DI WILLENDORF
Rivolgiamoci dunque alle immagini sacre, archetipiche delle popolazioni matriarcali, nelle quali si onorava il culto della Dea Madre, presente in quasi tutte le forme cultuali e le mitologie conosciute.
Vi troviamo una delle primissime espressioni artistiche dell’umanità, la prima in fatto di scultura, così come le prime espressioni pittoriche furono le incisioni rupestri.
Si tratta della La Venere di Willendorf, una statuetta di 11 cm d'altezza, scolpita in pietra calcarea e dipinta in ocra rossa, non originaria della zona di rinvenimento (Austria) e risalente al 30.000-25.000 a.C, ora custodita al Naturhistorisches Museum di Vienna.
Questi tipi di corpi, che venivano raffigurati nella Preistoria, erano definiti steatopigi (cioè "dalle grosse natiche", dal greco στεας, "grasso", e πυγε, "natica").
Viene chiamata Venere perché divina, in essa si venera La Grande Madre, una divinità femminile, nelle quale vengono incarnati degli aspetti fondamentali della vita umana: la fertilità e la generazione della vita, la terra nella sua capacità di produrre cibo ed acqua per il sostentamento, e l'aspetto peculiare di mediazione tra il divino e l'umano.
Come può il mito messicano della Donna-Farfalla, così come meravigliosamente descritta da Clarissa Pinkola Estès non evocare la Venere di Willendorf?
“È conveniente che la Donna Selvaggia/Donna Farfalla sia vecchia e grossa, perché porta il mondo del tuono in un seno e l'oltretomba nell'altro. La sua schiena è la curva del pianeta Terra con tutti i raccolti e i nutrimenti e gli animali. La nuca porta il sorgere del sole e il tramonto. La gamba sinistra trattiene tutti i poli, la gamba destra tutte le lupe del mondo. Il suo ventre porta tutti i bambini che saranno dati alla luce”.
LE NANAS di NIKI DE SAINT PHALLE
Per quanto antichissimo e scomparso, qualcosa di questi miti rimane nei geni delle donne e delle artiste di tutti i tempi.
La pittrice e scultrice Niki de Saint Phalle (1930-2002) è ricordata soprattutto per le sue grandi e colorate sculture femminili, chiamate Nana, donne gioiose, libere, con corpi giganteschi, che ballano, fanno il girotondo, esposte in luoghi pubblici di molte città.
Nel 1966 una gigantesca Nana incinta di 28 metri di lunghezza, 6 metri di altezza e 9 metri di larghezza, stesa sul dorso come in procinto di partorire è stata esposta a Stoccolma. Nel seno sinistro dell'opera viene installato un piccolo planetario mentre nel seno destro si trova un bar. I visitatori possono entrare nell'opera passando per la vagina.
Niki de Saint Phalle, non a caso, fu una pioniera nella difesa della parità di genere, nel veicolare attraverso opere comprensibili e amate da tutte le generazioni un discorso inclusivo, attento alle diversità, non-eurocentrico e non-gerarchico.
LE SCULTURE DELLA BIODIVERSITA’ UMANA: MALVINA HOFFMANN
Una delle più importanti scultrici americane è Malvina Hoffman (1885-1966). Studiò con il grande scultore francese Auguste Rodin dal 1910 fino alla sua morte nel 1917 ed è considerata il "Rodin d'America". Hoffman è nota per la sua monumentale serie in bronzo, "Le razze dell'umanità", commissionata nel 1930 dal Field Museum of Natural History di Chicago.
L'incarico ricevuto dal Field Museum spinse la scultrice a intraprendere un viaggio intorno al mondo che durò più di otto mesi, durante il quale Hoffman fotografò e dipinse centinaia di persone di diversi gruppi razziali ed etnici e raccolse enormi quantità di dati antropologici. Infine realizzò un totale di 104 monumentali figure in bronzo, esposte per la prima volta nel 1932 a Parigi.
Poco dopo la sua morte, avvenuta nel 1966, la Hall of Man del Field Museum of Natural History di Chicago fu smantellata, vedendo nell’opera della Hoffmann una apologia del discorso sulla razza che ebbe tragiche conseguenze con la Seconda Guerra Mondiale. Dal 2016, con l’apertura della mostra Looking at Ourselves: Rethinking the Sculptures of Malvina Hoffman, le opere sono state riabilitate, riconoscendo che l’artista non solo era estranea all’apologia del discorso sulla razza ma, al contrario, il suo intento era esaminare attentamente le sfumature che definiscono la bellezza di ogni persona, in intima connessione con la sua discendenza.
#05 La conversazione corporale di Clarissa e Opalanga
Concludiamo ora con un’indicazione per un rito di guarigione dalla vergogna del corpo.
Clarissa Pinkola Estès ha origini indie, di una tribù indigena del Messico, dell’istmo di Tehuantepec, mentre la sua amica Opalanga è originaria del Gambia nell’Africa Occidentale. In Donne che corrono coi lupi Clarissa Pinkola Estès racconta che, quando si incontrano, lei e l’amica si raccontano una storia intitolata Conversazione corporale sulla scoperta delle ancestrali virtù dei loro parenti.
Opalanga è una griot, cantastorie afro-americana, altissima e a sottile. Oltre a essere oggetto di scherno per la sua altezza, spesso Opalanga da piccola si senti ripetere che lo spazio tra gli incisivi era un segno preciso: lei era una bugiarda.
Clarissa è vicina alla terra, e ha un corpo stravagante.
“A me dicevano che la forma e la dimensione del mio corpo erano segni di inferiorità e di mancanza di autocontrollo. Nella nostra narrazione, Opalanga e io parliamo delle frecce che ci hanno colpito per tutta la vita perché, secondo i grandi «loro», i nostri corpi non erano abbastanza questo oppure troppo quell’altro. Cantiamo allora un canto funebre per i corpi che non ci sono stati concessi. Ci dondoliamo, danziamo, ci guardiamo. Pensiamo l’una dell’altra che il nostro aspetto misterioso è talmente bello che non riusciamo a capire come altri possano considerarlo altrimenti”.
Ma poi, con l’adultità, con la consapevolezza, accade qualcosa che cambia radicalmente il rapporto di Clarissa e di Opalanga con i loro rispettivi corpi.
Opalanga da adulta viaggia per il Gambia, nell'Africa Occidentale, ritrova la sua razza e scopre che nella sua tribù erano in molti a essere alti come tassi e altrettanto sottili, con gli incisivi distaccati. Questa fessura, le spiegarono, era detta Sakaya Yallah, apertura di Dio, ed era considerata un segno di saggezza.
Clarissa da adulta viaggia fino all'istmo di Tehuantepec in Messico e trova gente della sua antica razza, una tribù di donne gigantesche, forti, “leggere”, imponenti, che la accarezzano e con grande disinvoltura osservano che non è abbastanza grassa. Le chiedono dunque: “Mangi abbastanza? Sei forse stata malata? Devi sforzarti di più”, dissero, perché le donne sono La Tierra, rotonde come la terra, perché la terra accoglie tante cose.

